La scuola gattopardesca

Simone Giusti

Mi è capitato di scrivere, durante i primi giorni del lockdown, che la didattica era finalmente entrata nelle case degli italiani. Proprio lì, in cucina, in sala, in camera da letto, perfino nel bagno. Voci di maestre e di maestri, di insegnanti che spiegano e interrogano, assegnano compiti, ne verificano lo svolgimento. (So che sto parlando dell’80% circa delle situazioni: e penso che dovremmo piangere di rabbia per quel 20% di bambine e bambini, ragazze e ragazzi che non hanno avuto neanche questo surrogato di scuola: ma passo oltre).

È un’occasione straordinaria, in effetti, per capire non solo come funziona la scuola (quella dei nostri figli e non quella della nostra memoria) ma soprattutto per sapere chi siamo noi cittadini italiani del 2020. E chi siamo stati negli ultimi vent’anni. Che cosa paghiamo con i soldi delle nostre tasse? Quale servizio pubblico di istruzione finanziamo? E cosa gli chiediamo di fare? È un servizio all’altezza delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi che costringiamo a stare a scuola per oltre mille ore l’anno per dieci anni? 

Non è il momento di fare processi. Chi studia la didattica e fa ricerca in questo settore non aveva bisogno di questa emergenza per capire la situazione. Io sono sinceramente curioso di sapere cosa hanno capito i miei concittadini. Si rispecchiano in questa scuola? La trovano simile a quella che hanno frequentato? È adeguata? È adeguata a cosa esattamente? Cosa vi aspettate allora, e cosa vi aspettavate fino a ora? È cambiato qualcosa? Vale ancora la pena avere un servizio pubblico così? Funziona davvero, è fondamentale per la qualità della vita delle persone e delle loro comunità? Per la manutenzione ordinaria della democrazia?

Rispondo per me. Mi guardo intorno e dico: la scuola non è cambiata molto. È ancora simile quella che ho fatto io tra il 1974 il 1987. Lezioni, interrogazioni, voti. Cosa hai fatto, quanto hai preso.
E non saranno questi tre-quattro mesi a cambiarla in profondità. Soprattutto, non è così che dovremmo ottenere un cambiamento. Non così, non a caso, non per una causa esterna, una disgrazia qualsiasi. Anzi, quel che sta accadendo – investimenti a pioggia in tecnologie digitali, continua mortificazione dell’autonomia scolastica da parte del ministero, assunzioni senza selezione e senza formazione iniziale – dimostra che tutto sarà ancora di più come prima, come abbiamo sempre voluto.

Senza rigore, senza controllo. Avanti per inerzia, come abbiamo sempre fatto. D’altronde, noi siamo i sopravvissuti della scuola, abbiamo avuto successo, siamo qui, ascoltiamo la radio, radio tre addirittura, vuol dire che con noi la scuola ha funzionato. Sia pure in assenza di rigore e di controllo, senza un’adeguata formazione scientifica e professionale dei docenti della secondaria, inesperti in didattica per scelta e per contratto. Senza una valutazione del sistema scolastico degna di questo nome. 

Tutto è cambiato e io ho il sospetto che siamo stati noi – persone colte, progressiste – ad aver fatto di tutto – cioè niente – affinché la scuola, perennemente agitata dal vento del cambiamento, non cambiasse. 

Testo preparato in occasione della puntata del 17 maggio 2020 della trasmissione La lingua batte condotta da Paolo Di Paolo (Radio Tre Rai).