VADO VERSO IL CAPO

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VADO VERSO IL CAPO

a cura di Sergio Ramazzotti

edizioni Economiche Feltrinelli

euro 9,00 anno 2009 settima ristanpa

Anche se il mondo si colora degli arcobaleni a te più familiari, il tempo trascorso in Africa non ti abbandona mai. Si ripresenta puntuale come una fermata prestabilita, ti fa volare con il pensiero a quei giorni nel continente nero in cui il tutto e il niente ti facevano compagnia amorevolmente come una madre con il suo dolce bambino, lasciandoti un vuoto enorme al momento del risveglio da un lungo sonno in una realtà che ti appartiene sì…ma in maniera diversa.

Lo chiamano mal d’Africa…

Guardando scorrere via i tram e gli autobus, uno dietro l’altro in perfetto orario, con i mille volti anonimi ma allo stesso tempo comuni che li animano in un tourbillion senza fine, la malinconia assale l’autore, come una tempesta di granelli di sabbia, facendo volare i ricordi a quei giorni non troppo lontani in cui quasi per gioco nacque quella sorta di “sfida”: attraversare l’Africa da Algeri a Città del Capo per raccontare l’efficienza dei trasporti pubblici. Un viaggio in un Continente avvolto dalle nubi dei conflitti civili, conseguenza della crescente corruzione e povertà, e dai residui della “guerra fredda”, dalla vendita delle armi “nutrita” dai conflitti bellici prima da una parte e poi l’altra, per meri fini economici.

Il primo contatto con questo “nuovo mondo” è Algeri, un tempo una delle mille perle d’Africa, in cui confluivano flotte di turisti stranieri, per ammirare questa città culturale. Oggi Algeri è uno sparuto avamposto, uno dei tanti, che Ramazotti incontrerà sulla propria strada; un luogo in cui le due facce della stessa medaglia sono in piena simbiosi con ciò che lo circonda d mostrano un paesaggio variegato popolato da inconsapevoli attori. C’è chi dorme ai bordi delle strade, chi dentro improbabili mezzi di trasporto; fantasmi del tempo che fu per la comunità occidentale, ordinaria amministrazione per la popolazione locale.

Intorno alla fermata degli autobus si formano gruppi di persone in attesa della giusta partenza per i luoghi più disperati e sconosciuti di questo universo. La stazione dei pullman appunto, luogo assediato dai individui singolari che sembrano essere scelti dal destino per trovarsi li in quel luogo, a quell’ora, in quel preciso momento: dal bigliettaio vecchio e sdentato apparso dal nulla come una figura eterea, ai poliziotti del vicino commissariato che promettono tutto e il contrario di tutto per risolvere un borseggio.

Il vicino bazar fa da contorno con una ressa maniacale in attesa della fine del digiuno del Ramadan in cui folle di avventori senza scrupoli si accalcano per comprare il loro cibo, quasi fosse questo il reale significato del digiuno imposto dalla religione musulmana.

Lentamente le strade si svuotano, ed una città che fino a pochi minuti prima appariva incontaminata, si presente ora all’autore come una landa desertica rotta soltanto dal soffiare nel vento nei rottami delle vecchie Peugeot, con un canto malinconico.

L’amicizia è un valore che va assaporato lentamente, come un sorso d’acqua da una girba; ti accorgi, chilometro dopo chilometro, che i tuoi compagni di viaggio condividono un vissuto comune con il tuo, in una terra che assomiglia molto ad una partita a monopoli dove l’imprevisto è sempre in gioco, e dove tutto ha un prezzo, o una a risiko dove le guerre sono il tuo pane quotidiano.

Guardando negli occhi i tuoi interlocutori ti accorgi mestamente, che gli sguardi un tempo inespressivi che accompagnavano l’autore in questa lunga cavalcata verso il nulla, diventano i tuoi migliori amici dal Gabon, alla Nigeria, per giungere sino al Camerun e tanti altri ancora.

Una musica risuona leggera nella mente e le immagini rimangono immobili come una foto in bianco e nero: una donna con in braccio il suo bambino apparsa dal nulla aspetta nel mare del deserto un segno che non arriverà mai, mentre il camion scorre via velocemente.

Gli eserciti di ogni Stato raccontano ogni volta la medesima storia alle frontiere, quasi avessero imparato tutti il medesimo copione ,in Paesi dove la corruzione è ciò che serve per sopravvivere, il baratto è quello che resta per proseguire il cammino con i mezzi più improbabili: dai pullman scassati che odorano di benzina e datteri, ai treni che non assomigliano nemmeno lontanamente alla terza classe di quelli italiani, alle navi, bagnarole che a malapena galleggiano in un oceano di speranze destinato a affondare nelle proprie sconfitte, ma anche nelle proprie vittorie. Questa è l’Africa, città diverse, ma uguali fra loro, in cui la monotonia e la genialità abbracciano il medesimo fine, e il Capo appariva solamente come un puntino lontano inarrivabile nel cielo stellato, e Forlani, Tamarraset, Arlit erano soltanto satelliti di passaggio.

Tra l’incredulità di chi guarda “il pellegrinaggio” di un uomo bianco, straniero fra gli stranieri, clandestino fra i clandestini, suscita l’effetto di una fiaba o una leggenda da raccontare seduti di fronte ad un thè fumante, mentre tutto intorno scende il silenzio più assoluto. Alberghi di quinta categoria, luci cimiteriali a colorare la sera,tuareg, soldati di a minacciare il tuo risveglio nel cuore della notte, coprifuoco in ogni comunità, paura di ciò che potrebbe accadere da un momento all’altro, ma con la consapevolezza di succhiare il nettare della vita (carpe diem) di un “paradiso” chiamato Africa.

Ciò che resta alla fine di tutto sono i lunghi viali di una Milano indifferente, mentre in lontananza l’autore scorge oasi lontane, frutto di un sogno diventato realtà.

Alessandro Villanti

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