Un'animatrice speciale. Intervista a Barbara Di Natali

Dopo aver frequentato con successo il corso per Animatore socioeducativo, Barbara Di Natali ha iniziato a lavorare per l’associazione L’Altra Città e per i suoi soci. L’abbiamo incontrata per conoscere meglio il suo lavoro e il suo punto di vista sull’attività di volontariato. – Qual è stato il percorso che ti ha portato all’Associazione L’Altra Città?
Ho frequentato il corso di Animatore socioeducativo dell’agenzia formativa dell’associazione L’Altra Città nel 2015, e posso dire di essere arrivata qui perché sentivo di voler “ufficializzare” una propensione per la dimensione sociale e per l’aiuto all’altro. In questa direzione vanno per esempio il tirocinio fatto a contatto con gli immigrati, in una struttura di accoglienza per donne gestita dalla Cooperativa Solidarietà è Crescita. – Di cosa ti stai occupando in questo momento?
Sto lavorando con i ragazzi immigrati ospiti delle strutture di accoglienza della Cooperativa, in un paio di progetti. Uno, in svolgimento già da due mesi, riguarda un laboratorio di falegnameria, dove siamo affiancati da una figura professionale. Due ragazzi, che avevano già svolto quest’attività nel loro paese di origine, imparano a lavorare il legno. Il secondo è un laboratorio  lingua italiana e coinvolge una quindicina di ragazzi immigrati. Alcuni di loro oltre a frequentare i corsi interni alla struttura frequentano anche la scuola di italiano (il che implica una maggiore conoscenza della lingua da parte loro). Con loro cerco attraverso attività didattiche soft (canzoni, giochi…), di insegnare l’uso corretto della lingua con particolare attenzione alle formule utili nella conversazione quotidiana. Di recente sono stata impegnata anche in un altro progetto, concluso da poco e promosso dal CNA, un percorso di accompagnamento che ha comportato a visita a sei officine artigiane, così che i ragazzi hanno potuto vedere come vengono svolti questi lavori in Italia. Un altro progetto concluso è stato il volontariato con i ragazzi immigrati minorenni presso la casa di accoglienza.

– Chi sono gli ospiti delle strutture di accoglienza?
Sono richiedenti asilo, ragazzi di età dai 17 in su, la maggior parte tra i 20 e i 30, provenienti dall’Africa e dall’Asia, prevalentemente da Pakistan, Mali, Gambia, Ghana e Nigeria. Le persone come loro in genere si muovono per cercare fortuna, ma anche per sottrarsi a condizioni sfavorevoli del loro Paese di provenienza. Alcuni di loro speravano di trovare subito un lavoro qui in Italia, ma nel complesso sono contenti di aver trovato delle persone che li supportano e li aiutano nelle loro necessità e difficoltà. – Come si svolge il tuo lavoro con loro? Di quali risorse e capacità hai bisogno per offrire al meglio il tuo contributo?
Non c’è una strategia, un metodo preciso di approccio, ci si basa molto sui bisogni specifici e sulle risorse delle persone. Nei primi incontri si fa una sorta di presentazione per rompere il ghiaccio e conoscersi. Poi li accompagno nelle diverse attività con modalità diverse, per esempio nel corso di italiano io sono la loro insegnante, nel progetto di falegnameria sono più che altro un animatore. – Quali sono le difficoltà di questo tipo di attività? Quali le soddisfazioni?
Dà soddisfazione vedere i ragazzi impegnati nel fare qualcosa con gioia. Le difficoltà riguardano sorpattutto la comunicazione, resa ardua soprattutto dal divario culturale. Il fatto stesso di essere donna rende le cose non facili: molti di loro sono cresciuti con una visione della donna limitata allo spazio domestico, ma poi si rendono conto che è molto bello avere queste opportunità di fare e imparare, e gradualmente si allineano con mentalità e le abitudini del paese di arrivo. – Pensi che la problematica legata ai flussi di migranti sia specifica del nostro tempo? Quali dovrebbero essere, secondo te, i primi passi di una struttura/comunità di arrivo?
Non penso che sia legata specificamente al nostro tempo ma piuttosto legata alla maggiore fruizione di comunicazione del nostro tempo, nel senso che le grandi migrazioni ci sono sempre state, solo che oggi ne abbiamo una maggiore consapevolezza, soprattutto attraverso numeri e statistiche di cui prima non si disponeva. Credo che solo attraverso un lavoro di cooperazione tra istituzioni si possa operare bene, e questo anche tra nazioni. All’ingresso in una struttura l’immigrato ha bisogno innanzitutto di tempo per ambientarsi, in un secondo momento ha bisogno di un’attenzione mirata alla sua situazione, e dovrebbe essere inserito all’interno della società e della cultura ospitante attraverso corsi, attività, dialogo con volontari e operatori (il volontario nella fattispecie dedica una gran quantità di tempo al rapporto umano), cose che come ho potuto osservare vengono tutte fatte all’interno della Cooperativa. – Tirando le fila di questa esperienza, ritieni che da essa ne possano nascere altre nella stessa direzione?
Spero di sì perché è molto stimolante il confronto con loro, e soprattutto perché essendo alle mie prime esperienze nel settore spero di poter migliorare le mie competenze in vista di nuove occasioni di incontro con l’altro, sia per lavoro, sia per motivi personali.

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